Presentazione

La proiezione è introdotta da Gian Piero Piretto.

Note introduttive

Il regista è oggi citato come enfant terribile del cinema sovietico. Al di là delle etichette, la sua posizione rientra in un filone di particolare interesse e originalità nell’ambito della storia culturale sovietica. Parecchi artisti e intellettuali, senza affatto toccare le corde di ciò che sarebbe stato definito dissenso, o senza la minima intenzione di minare o attaccare il potere sovietico, avrebbero creato testi artistici che la censura, con le motivazioni più disparate, avrebbe bollato e di cui non avrebbe permesso la circolazione. Protagonisti di queste operazioni sarebbero stati musicisti, scrittori, pittori, registi, teatrali e cinematografici. La buona fede, addirittura la manifesta intenzione di produrre un’opera che rispondesse alle esigenze del discorso del momento o che perfino offrisse un contributo anche ideologico alla causa, non trovava riscontro nel canone o sfuggiva per spirito, approccio, sensibilità a quelli che erano i dettami dei tempi. Spesso lo stile, la forma, gli artifici usati mandavano in crisi il progetto e relegavano il testo in questione al destino di poločnyj, da scaffale, nome con cui il prodotto veniva archiviato (fortunatamente non distrutto) e da cui solo fenomeni quali il disgelo, la perestrojka o più radicalmente il crollo dell’URSS li avrebbero riscattati. Il film Novaja Moskva si inserì nel discorso della riprogettazione della capitale sovietica fatto partire da Stalin all’inizio degli anni Trenta, ispirato e pensato in competizione all’analogo progetto hitleriano relativo alla costruzione di Germania, la nuova Berlino che si sarebbe dovuta estendere ben oltre i tradizionali confini metropolitani. Stalin indisse infiniti concorsi architettonici che produssero una miriade di progetti, la cui stragrande maggioranza non sarebbe mai stata realizzata. La vecchia Mosca delle cupole a cipolla e dei vicoli tortuosi avrebbe dovuto cedere il posto a piazze ampie, ad assi prospettici interminabili, a costruzioni monumentali, la cui funzione ricordava più enormi piedestalli per gigantesche statue che non autentici luoghi di lavoro, abitazione o servizio. Medvedkin realizzò nel 1938 il suo contributo a questa causa. Il film, rispettando la consegna della leggerezza da commedia (nel russo del realismo socialista pesennost’, inconsistenza e ritmo coinvolgente da canzonetta di massa) narra la storia (esile e scontata) di un giovane ingegnere di provincia che arriva a Mosca per mostrare la realizzazione di un plastico (elemento più reale del reale nella politica socio-culturale staliniana) della nuova Mosca, appunto, immaginata e concretizzata ben prima della sua effettuale costruzione. La commedia non poteva prescindere da un paio di intrecci amorosi, da alcuni equivoci che movimentassero l’andamento della narrazione, ma la sua forza, e la sua disgrazia per i tempi, stette nelle maniere e nei registri con cui il regista affrontò istanze di fondamentale portata per l’epoca e momenti di comicità che sconfinavano nel grottesco e nell’irresistibilmente ironico. Due categorie che mal si combinavano alle esigenze dell’opera d’arte totalitaria, che prevedeva letture univoche, emozioni facili e condivisibili, abbassamento dei livelli strutturali e contenutistici; in una parola, il conclamato Kitsch totalitario. Il leggendario allargamento della via centrale di Mosca, all’epoca Gor’kij, oggi tornata a chiamarsi Tverskaja, viene affrontato e risolto con insuperabile comicità, priva di qualsivoglia componente di celebrazione o trionfalismo, attraverso la scenetta che coinvolge due anziane signore che vedono Mosca muoversi e spostarsi al di là della loro finestra e che in preda al panico sono pronte a salvare il salvabile (nella fattispecie l’immancabile oggetto di culto-trash di quegli anni: il ficus di plastica che troneggiava in ogni appartamento) e abbandonare la casa. Ancora su questo stesso tono è la gag del pittore che non riesce a concludere il suo quadro perché sotto i suoi occhi le vecchie case e chiese vengono abbattute e da un momento all’altro il paesaggio muta e si trasforma. Tocco di classe di tutta la pellicola è il momento in cui, di fronte a un folto e scelto pubblico, il giovane ingegnere deve proiettare il filmato in cui ha visualizzato la Mosca del futuro. Il proiettore fa le bizze e il film parte a rovescio: chiese, cupole e casupole risorgono dal crollo degli avveniristici edifici. Il passato torna a dominare sul presente, tempo e storia recuperano i propri territori così violentemente messi alla prova dall’operato e dalla virtualità staliniana. A tamburo battente si blocca la macchina e si recupera l’andamento regolare, ma il gioco ormai è fatto. Troppa disinvoltura, troppe possibilità di interpretazione, di lettura fra le righe, nonostante il finale, dopo che l’inghippo tecnico viene risolto, arrivi a presentare una Mosca avveniristica e splendida, in perfetta sintonia con i progetti staliniani, ma non sufficiente a far perdonare a Mevedkin il tempo e lo spazio dedicato agli equivoci e, soprattutto il linguaggio con cui aveva dimostrato di prediligere l’intrigante andamento del procedimento alla banale e scontata cerimonia del risultato. (G.P.P) Bibliografia essenziale: 1) Buttafava Giovanni, Soavi licori, succhi amari e il riso rosso di Medvdedkin, in Grasso Aldo (a cura di), BN (L’irrealismo socialista), XXXIV, gennaio/febbraio 1973, 1/2, pp. 89-95. Disponibile in rete: http://www.esamizdat.it/temi/buttafava1.htm 2) Widdis Emma, Alexander Medvedkin, I.B. Tauris, London and New York 2005.

Film in programma

Novaja Moskva

di
Russia, 1938 (100 min)

Il film Novaja Moskva si inserisce nel discorso della riprogettazione della capitale sovietica...

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